domenica 17 settembre 2017

NARCOFUTBOL


Ci sono nomi destinati a rimanere nella nostra memoria collettiva per intere generazioni, uomini che con le loro decisioni cambiano la storia di un paese o addirittura del mondo intero, uomini che spesso e volentieri si sono fatti da soli, senza aiuti.

Questi uomini, però, spesso entrano nella storia del mondo dalla parte sbagliata, dalla parte dei “cattivi”.


In queste storie, poi, capire quale sia la parte buona e quella cattiva è molto difficile; capita anche che la povertà e la disperazione non permettano più di distinguere il Paradiso dall'Inferno, e ciò che ne nasce è una miscela anarchica in cui tutto è concesso; in cui ogni limite, ogni legge viene spostata qualche centimetro più in là, in cui il fine giustifica puntualmente il mezzo.

La location perfetta per una di queste storie è senza dubbio la Colombia degli anni ’80, un luogo dove la “miscela anarchica” è costituita da potere, sangue e coca; il rapporto tra il governo e i narcos diventa sempre più stretto, soffocante, forte, quasi indissolubile.


In particolare un narcos e una banda a quel tempo avevano a libro paga quasi due milioni di colombiani: Pablo Emilio Escobar Gaviria e il suo “cartello di Medellin”.

Tutti conoscono Escobar, è superfluo ricordarlo come l'imperatore della cocaina, il narcotrafficante più ricco di tutti i tempi o come uno dei criminali più sanguinari della storia, quello che forse non tutti sanno è che Escobar è stato anche un signore del calcio!


Finanziò la costruzione di diversi campi da calcio nei quartieri popolari di Medellin  e non perse l’occasione di invitare nella sua Catedral (la sua “prigione”) un certo Diego Armando Maradona, personaggio molto amato dal popolo sudamericano, soprattutto quello meno abbiente, per una partita.

Per dovere di cronaca alla partita partecipò anche il famoso portiere colombiano Renè Higuita conosciuto per il colpo dello scorpione e per il suo soprannome: “El Loco”.

Ma, andiamo con ordine: correva l'anno 1991, Maradona scontava la squalifica di due anni per essere risultato positivo alla cocaina nei test anti doping, quando venne avvisato dal suo agente, Guillermo Coppola, che un importante signore colombiano era intenzionato a pagarlo bene, molto bene per esibirsi in un'amichevole; la proposta a prima vista non sembra di quelle indecenti, Maradona senza farsi troppe domande prende il primo aereo e arriva a Medellin, qui però la storia cambia; fu scortato in una prigione circondata da centinaia di guardie, le sue certezze traballarono:



-¿Qué te pasa, quieres arrestarme?



Passata la prima vista traumatica Diego si calma e va a conoscere questo famigerato “El Patron”, anni dopo Maradona riferirà:



“Sembrava di essere in un hotel di lusso di Dubai. Fu lì  che mi presentarono il signore che mi aveva invitato, chiamandolo El Patron. Io non leggevo i giornali, non guardavo la tv, non ero sicuro di chi fosse.  Si dimostrò un uomo molto rispettoso, anche freddo, ma amichevole con me. Mi disse che ammirava il mio calcio, che si identificava con me, perché entrambi eravamo riusciti a trionfare sulla povertà”



Il giorno dopo Maradona giocò la partita, fu pagato e tornò a svernare in Argentina; senza chiedersi più di tanto perché quell’uomo avesse così tanti soldi e vivesse in una “prigione” del genere.

Maradona però non è un tipo scontato, non può far qualcosa senza lasciare dietro di sé una scintilla, una dichiarazione che consenta a chi presume di avere la coscienza limpida di bollarlo una volta in più come “drogato” o “mafioso” e inviti a ragionare chi, invece, cerca di carpire dalle sue sparate ogni parola di cruda saggezza che proferisce. 

La dichiarazione è la seguente:



“In tema di narcotraffico, io sono il meno indicato per giudicare, però il padrone pagava i contadini per raccogliere la pasta di coca, ne pagava altri perché lavorassero nei laboratori e pagava anche i piloti per portarla negli Stati Uniti. Alla fine dei conti, fabbricava un prodotto clandestinamente e lo vendeva a gente che lo chiedeva, nessuno veniva obbligato, no? Non lo rubava a nessuno. D'altra parte, i politici vengono eletti e rubano il denaro al popolo, alzando le tasse  a una madre che compra il latte per i suoi figli. Quindi, chi è il peggiore eticamente? Per quanto riguarda i morti, era in guerra contro lo Stato per un motivo patriottico, perché i cittadini colombiani non venissero estradati negli Stati Uniti. E in guerra la gente muore. Anche Bush per il petrolio uccise centinaia di migliaia di persone. Lui non è cattivo?”



Benvenuti in Sud America.


sabato 2 settembre 2017

QUANTO CONTA PER LEI LA BELLEZZA?


Faceva un gran caldo durante quell’agosto 1986, specialmente a Foggia; la squadra locale, presieduta da un certo Pasquale Casillo, veleggiava in acque burrascose, per illecito sportivo era già stata condannata ad una retrocessione in C2 (pena che poi fu alleggerita in un passivo di otto punti nella successiva C1, salvando così la categoria).

Di certo fino ad ora la parola “bellezza” non ha molto a che fare con questa storia, che sembra ahimè una delle innumerevoli (quasi classiche) storie di una delle squadre della nostra provincia calcistica; ma la svolta arriva grazie ad una di quelle insulse amichevoli estive che tanto piacciono agli addetti ai lavori: il Foggia incontra il Licata.

Il Licata all’epoca viveva il momento più alto della sua storia e a sedere in panchina c’era un certo boemo chiamato  Zdeněk Zeman, questo non era un nome nuovo al braccio destro di Casillo, Peppino Pavone, che lo aveva visionato più di una volta. Alla fine dell’amichevole il boemo non tornò in Sicilia, Zdeněk aveva una nuova squadra: il Foggia.

Come ogni bella storia probabilmente la cronistoria delle gesta di quel “Foggia dei Miracoli”, targato ZZ, non avrebbe senso, non avrebbe senso quantificare l’amore e la stima che il boemo si guadagnò nel capoluogo dauno; addirittura a quel tempo persino il nome “Foggia” era desueto, si usava “Zemanlandia”.

Qualcuno, allora, pensò che quell’allenatore così bravo, con un gioco così fresco meritasse ben altri palcoscenici e nel 94’ il boemo venne portato nella Capitale, sponda nord, sponda laziale; qui seguirono cinque anni (tre laziali, due romanisti) in cui il bel calcio di certo non mancò, a mancare però, furono i trofei di spessore; costante, questa, che il boemo si trascinerà avanti per decenni.

Trascorse un decennio dopo le esperienze romane, un decennio di pellegrinazione in quasi ogni corte d’Europa; tentò anche di rimettere in piedi quel giocattolo meraviglioso che era stato il “Foggia dei miracoli”, senza però, riuscirci.

Ed è a questo punto della storia che scoppia la seconda scintilla della carriera del boemo, scoppia neanche troppo lontano dalla “sua” Foggia, scoppia a Pescara. In sintesi: il 21 giugno 2011 diventa l'allenatore del Pescara, in Serie B; il 20 maggio 2012 riporta la squadra adriatica nella massima serie dopo diciannove anni, vincendo il campionato contro un Torino formato rullo compressore per la serie cadetta; gli abruzzesi totalizzano 83 punti in 42 partite, conditi da 90 gol (miglior attacco del campionato), la maggior parte di questi merito di quel magico tridente che il boemo regala al calcio nostrano: Verratti, Insigne e Immobile.

L’esperienza pescarese non fa altro che sottolineare come “Zemanlandia” non sia una città o una squadra, non è un modulo o una minestra già pronta che all’occorrenza si può riscaldare; Zemanlandia non è altro che un bellissimo castello di carta che ha bisogno di tempo e fatica per essere costruito e che con una minima variazione può crollare su se stesso, lasciando dietro di sé una squadra alla deriva ed una piazza stordita, spesso di gioia, che si rifiuta di fare i conti con la cruda realtà.

La cruda realtà è che il Foggia o il Pescara o il Licata non potranno mai essere il Real, il Bayern o il Barcellona; questione di soldi, questione di tradizione, questione di ambiente; ecco, questa “cruda realtà” che ai più può sembrare una banale affermazione oggettiva e difficilmente attaccabile per un tifoso che viene dalla Zemanlandia di turno è un’offesa personale, quasi una bestemmia;


“Lo dicono tutti i giornali, il Pescara in Europa è seconda solo al Barca”



Ecco, al netto di quella stagione trionfale il Pescara senza tridente e senza Zeman naufragò in un mare di gol (questa volta subiti) e di sconfitte; i tifosi impattarono contro una verità dura, cattiva, dalla quale si ripresero con molta fatica.

Zeman nella sua longeva carriera da allenatore non hai mai vinto niente di rilevante, neanche una Coppa Italia; si può definire allora Zdeněk Zeman come “un perdente”?

Certo che sì, se per il tifoso il calcio è solo vittoria, punti, gloria, trofei, prevaricazione costante e incolore sull’avversario; se, invece, per il tifoso il calcio è anche bellezza, romanticismo e passione; beh allora il boemo non è altro che un nonno che offre ai propri nipoti (noi tifosi) un altro giro sulla giostra della felicità, un altro giro a Zemanlandia.
La questione è questa “Quanto conta per lei la bellezza?”