Per quasi tutti i mediani il vocabolo
PAURA è una parola non definita, per molti altri è semplicemente quella
sensazione apparentemente sconosciuta che si vede affiorare nel volto dei
nostri avversari quando ci vedono; sicuramente uno che di paura ne incute e
pure parecchia è GARY MEDEL.
Oggi finalmente trovo il tempo di
scrivere un articolo sul giocatore che
ha conquistato con meriti sul campo l’immagine della mia pagina e una buona
fetta del mio cuore calcistico; il perché della mia totale ammirazione è una
motivazione tanto semplice quanto valida: il modo di giocare di Gary.Il “pittbull”,(soprannome affibbiatogli per la cattiveria agonistica che dimostra ad ogni partita) infatti gioca ogni partita come se fosse una finale di Champions League, dilaniandosi i polmoni e i muscoli delle gambe ricordando a tutti che quando non sai cosa ti riserverà la vita, soprattutto se il posto in cui sei cresciuto non è esattamente la City di Londra ma anzi, da quel posto si esce spesso con un buco in testa o con le manette ai polsi, portati verso chissà quale penitenziario gestito da chissà quale dittatura (quando ti va bene) o da chissà quale cartello della droga (quando ti va male), non puoi permetterti di dare meno del centouno per cento della tua anima, qualsiasi cosa tu stia facendo; e per fortuna soprattutto sua, ma anche nostra, il Pittbull può dare la sua anima su un campo erboso.
Come ho già detto Gary nasce in uno di quei posti che non sono segnati nelle guide turistiche perché è meglio evitarli se non si ha gli agganci giusti e questo posto è Cerro San Cristobal, un lembo di terra rubato alla collina (ma non alla malavita) dove di solito cresci in due modi: o ti mettono in mano una pistola o una dose di qualcosa; ma per fortuna il nostro mediano cileno non ha ricevuto un’arma o della droga ma un PALLONE; per la verità non è che Gary ci sapesse fare troppo col pallone, ma per passione e istinto di sopravvivenza riesce a coronare il suo sogno di bambino e diventare calciatore.
Viene preso giovanissimo dall’Universidad Católica; una delle più importanti squadre cilene, con questa casacca esordisce nel 2006,e al suo primo derby utile con l’Universidad de Chile si procura un rosso per un entrataccia da codice penale su Marcelo Salas.
Insomma, Gary Medel non ha paura di niente e di nessuno, non gli fa spavento nemmeno il reato di lesa maestà ai danni del Matador, una leggenda del calcio cileno.
Dall’ Universidad Católica emigra in poco tempo al Boca Juniors; e secondo voi, uno come Medel quanto ci mette ad ambientarsi alla Bombonera? Poco, pochissimo; in poco tempo diventa idolo dei tifosi argentini, ed è tutto dire per un cileno.
Da questo periodo argentino e un ottimo mondiale nel 2010, Gary sbarca in Europa, più precisamente a Siviglia, da dove sale fino al freddo Galles (Cardiff) e da li riscende a Milano (sponda neroazzurra) dove in due anni è stato ed è l’unico insostituibile sia sotto la guida di Mazzarri (Medel rimane l’unica cosa sensata della sua gestione), sia sotto la guida di Mancini.
Ed è proprio sotto la guida del tecnico jesino che il Pittbull dopo due anni di digiuno si è finalmente sbloccato in Italia segnando il suo primo gol, pesantissimo tra l'altro; perché ha permesso all’Inter di superare la Roma in campionato e diventare capolista della Serie A.
E secondo me proprio la sfida con Roma è stata la sintesi perfetta della vita e della carriera di Gary, perché domenica scorsa il Pittbull ha fatto il pittbull, correndo su ogni pallone e costruendo gioco, azzannando la Roma proprio come un cane feroce poco prima dell’intervallo; ma ha concluso la sua gara prima del previsto per via di un infortunio, ma ha lasciato il campo solamente in barella, solamente dopo ripetuti tentativi di resistere al dolore: devono portarlo fuori quasi a forza, perchè non sta più in piedi e rischierebbe di farsi male ancora di più. Avesse avuto ancora solo una goccia di energia, sarebbe restato lì, a guidare i suoi compagni e a tenere in piedi il muro interista.
E invece, deve vedere i suoi compagni resistere per tutto il secondo tempo; deve vedere Handanovic parare tonnellate di palloni che, per pochi centimetri non hanno fatto la felicità della banda di Garcia; deve vedere Miranda e Murillo soffrire come cani per non far crollare le speranze degli 80000 di San Siro; e, alla fine, il suo sorriso verso la curva con le braccia al cielo quando quei dannati 90’ erano passati valgono più di mille parole, sono un simbolo.
Il simbolo di chi, come noi, vive il calcio con l’anima, con il cuore, si, diciamocelo, con le palle.
Grazie di tutto, Pitbull.
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